di FABRIZIO DELL’OREFICE DINI se ne va. E si porta via due senatori, Natale D’Amico e Giuseppe Scalera. Fisichella pure non ci sta, non aderisce al Pd, se ne va pure lui. Altri ci sono, restano in bilico. Potrebbero seguire. Insomma, la maggioranza perde pezzi. Si comincia con Domenico Fisichella che già aveva mostrato le sue perplessità all’epoca del caso Speciale e ancor di più quando il governo ha approvato il federalismo fiscale: «Sono uscito da An per quello», raccontava nei corridoi del Senato. E ora esce allo scoperto, spiega che non entrerà nel Pd perché non vuole far parte di un soggetto politico assieme agli ex Pci. Poi c’è Lamberto Dini. La sua è un’iniziativa politica vera e propria. Lui, che fa parte dei 45 saggi del Pd, se ne va. Lo segue la oomponente liberaldemocratica della Margherita con altri due senatori (D’Amico e Scalera, appunto), la sottosegretaria alla Giustizia Melchiorre, il deputato Tanoni. In sala c’è anche Federico Orlando. L’ex premier, in conferenza stampa, usa una frase che è assolutamente emblematica: «Vorremmo continuare a dare il sostengo al governo». Ma la valutazione sarà giorno per giorno. Sottolinea di voler impedire «ogni slittamento verso sinistra nel baricentro della coalizione, ogni cedimento alla sinistra tradizionale del "tassa e spendi", ogni arretramento sulla strada delle riforme liberali dell’economia e della politica». Parte l’affondo più duro all’estrema sinistra: «In un mondo globalizzato, si esigono delle politiche liberaldemocratiche. Ho sentito la sinistra massimalista parlare di "redistribuzione", non l’ho mai sentita parlare di "produzione" o di "creazione di ricchezza". L’Italia non merita il declino, ma se il governo non recupererà credibilità, sia a livello nazionale sia internazionale, anche il Partito democratico non avrà successo». Quindi sintetizza: «Attendiamo il governo al varco. Non voteremo nulla a scatola chiusa». E tanto per far capire, pone il primo paletto: il protocollo del welfare che l’ala sinistra vorrebbe modificare, per Dini non va toccato. «Rimango a quanto ha detto Prodi, ovvero che è immutabile. Se ci saranno cedimenti, voteremo contro». E lancia il primo avvertimento, sulle tasse: «Aspettiamo di vedere la proposta complessiva, ma rispetto ai primi annunci sulla pressione fiscale c’è stato un arretramento. Noi siamo convinti che una tassazione elevata sia un freno allo sviluppo». Dunque, una bocciatura pressocché totale della linea Prodi. Se si parla di Veltroni, invece, i toni cambiano. Dini lancia segnali: «È il più adatto a guidare il Pd», sottolinea anche la vicinanza di idee e di contenuti. Ma attacca il Pd così come sta nascendo, punta il dito contro i «quadri di partito di Ds e della Margherita, in particolare i Popolari» che monopolizzano lo start up del processo. «Delle 20 regioni italiane - dice Dini, parlando della guida del partito a livello regionale - 13 saranno capitanate dai Ds e 7 dai popolari. Nella lotta che esiste sul territorio tra Ds e ex Ppi vengono schiacciate le altre identità politiche. Non chiediamo posti - precisa - io sono stato iscritto come capolista in un collegio in Toscana, ma non ho accettato. Nessuno di noi parteciperà alle cosiddette primarie del 14 ottobre. Dico cosiddette, perché non si può votare direttamente per Veltroni, ma bisogna votare le liste preconfezionate dai partiti». Il 7 ottobre, intanto, i liberaldemocratici terranno una manifestazione per presentare il loro documento in dodici punti. Berlusconi, intanto, gongola. Il Cavaliere legge l’inizitiva di Dini cone l’inizio della fine di Prodi. E lo dice chiaramente ai suoi: «Se molla Dini è fatta. Vedrete, Prodi ormai è agli sgoccioli». E per il remier i problemi non finiscono qui. Domani il senato affronterà il voto sulla Rai e altri due (quasi) dissidenti dell’Ulivo: Willer Bordon e Roberto Manzione stanno valutando se presentare una mozione sulla Rai che potrebbe far ulteriormente scricchiolare la maggioranza. Il mese nero del Prof è appena iniziato. mailto:f.dellorefice@iltempo.it
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