A Napolitano la grazia non posso chiederla. Nel 1956 di fronte ai carri armati per le strade di Budapest io avrei combattuto al fianco degli insorti... Il mio anticomunismo deve restare intatto...».
L'argomento lunedì mattina a Santa Maria Capua Vetere, dove gli avevo fatto visita, mi era parso granitico e al tempo stesso scivolosissimo.
Da liberale che non si è mai sentito meno anticomunista dei fascisti, o meno antifascista dei comunisti, avevo provato ad aggirarlo «Contrada, Le porto i saluti affettuosissimi di un suo grande conterraneo, Filippo Mancuso». A lui era venuto quasi un sorriso di soddisfazione. Gli avevo fatto simpatia e forse (mi piacerebbe credere) alla fine gli ho anche portato fortuna.
Ma perché Mancuso? Magistrato fino in fondo, Filippo Mancuso era il nome della persona giusta per aver accesso ai codici di Bruno Contrada, poliziotto fino in fondo. Quello che la storia d'Italia è andata sradicando, fra casellismi dannunziani e violantismi spregiudicati, è stato proprio un vincolo di umanità fra magistrati fino in fondo (Mancuso e Carnevale lo sono davvero, Caselli e Violante solo macchiette) e poliziotti fino in fondo (quelli che non finiscono mai prigionieri nelle strettoie anguste del servizio pentiti).
Di questa storia Contrada è stato vittima: vittima processuale, ma poi in carcere inseguito e perseguitato dalla crudeltà di esseri umani degradati a calcolo sociale. Non gli era rimasto che aggrapparsi alla sua ultima tunica: l'orgoglio di poliziotto che muore ma non si arrende, nel senso che del proprio onore non ammette rapporti di scambio. Anche quando nei rapporti di forza il più debole è lui.
Le testimonianze in favore di centoquarantadue persone per bene (per lo più funzionari di polizia) erano state ritenute «non attendibili», perché inquinabili da precedenti rapporti professionali aggravati dall'essersi trasformati nell'arco degli anni in rapporti d'amicizia. Avevano prevalso contro di lui le dichiarazioni di tre o quattro pentiti, che nella loro biografia motivi di vendetta ne avevano accumulati tantissimi.
Ma la legislazione e la giurisdizione cosiddette premiali dovevano avere i loro santi e i loro martiri. I peccati si ergevano a meriti e i meriti diventavano colpe. A Bruno Contrada era toccato un Purgatorio che era un Inferno, all'interno del quale per continuare a esistere toccava in qualche modo, persino nella propria patria del cuore, la tortura del propter vitam vivendi perdere causam.
Nato a Napoli settantasette anni fa, Contrada era stato arrestato il 24 dicembre del 1992 nella sua casa di Palermo. L'ipotesi di concorso esterno in associazione mafiosa lo fece rimanere due anni e mezzo, fra sofferenze indicibili, a Forte Boccea. Rinviato a giudizio il 12 febbraio del 1994, venne condannato a dieci anni di carcere dal tribunale di Palermo il 5 aprile del 1996. Poi, nel maggio del 2001, dalla Corte d'Appello di Palermo fu assolto con formula piena. Ma l'anno dopo tale sentenza fu annullata dalla Cassazione e il 26 febbraio del 2006 a Palermo fu restaurato il verdetto di primo grado. Nel maggio del 2007 la Cassazione confermò la pena e Contrada fu assegnato al carcere di Santa Maria Capua Vetere. E lì, lunedì mattina, insieme all'onorevole Zinzi dell'Udc, lo avevamo incontrato.
Sostenitore dello Stato, Bruno Contrada sembrava aver fatto anche della sua reclusione in carcere una testimonianza di devozione allo Stato. Gli era stata inflitta una sorta di «pena di morte a tappe» che lo privava del diritto a quei benefici e a quelle pene previste in alternativa alla detenzione. Non sono applicabili a quanti siano stati condannati per concorso esterno in associazione mafiosa (reato che non c'è nel codice, ma che è nato dalla giurisdizione).
A Contrada ormai premeva soprattutto difendere onore e dignità. Invece di una domanda di grazia, egli aveva fatto una istanza di differimento dell'esecuzione. Sulla quale però finora la magistratura di sorveglianza di Santa Maria Capua Vetere si era pronunciata in termini superficiali, approssimativi, contraddittori: con scarso rispetto dell'onore e della dignità dello Stato democratico ed arrivando ad evocare solo per Contrada «sofferenze aggiuntive» estranee al nostro ordinamento. Se c'è al Quirinale una sensibilità e un'attenzione anche a quel che fanno le magistrature di sorveglianza, forse - avevo pensato - era venuto il momento di attivarsi: ovviamente, con discrezione einaudiana.
Può darsi che nelle ultime quarantotto ore l'einaudiano magistero di discrezione e di influenza abbia dato i suoi buoni frutti. Se fosse così, Bruno Contrada da Giorgio Napolitano continuerebbe a sentirsi separato da quel che accadde in Ungheria nel 1956, ma per insondabili percorsi le nostre istituzioni si sarebbero finalmente avvicinate alla sua drammatica vicenda.
Resta ora recluso a Santa Maria Capua Vetere il funzionario di polizia Ignazio D'Antone, che non ha mai abbandonato Contrada. Privato della compagnia di cotanto Don Chisciotte, può darsi che il carcere gli apparirà ancor più duro. Ma la gloria per essere stato al fianco di Bruno Contrada nei giorni bui, gli darà la forza per sperare ancora. Sperare in che cosa? In un avvenire che cancelli ogni memoria di «concorso esterno in associazione mafiosa». La libertà di Contrada farà bene anche a lui.