Invece di allentare la pressione in Georgia, il tanto atteso ritiro dei soldati russi ha trasferito l’instabilità dai campi di battaglia ai tavoli della diplomazia. In attuazione, anche se ritardata, del quinto dei sei punti che compongono l’accordo di tregua mediato da Sarkozy lo scorso 12 agosto, Mosca ha provveduto ad una lenta smobilitazione delle sue truppe dal territorio georgiano. Ma gli effetti positivi non sono arrivati.
L’avanzata russa era diretta nei centri nevralgici per il controllo della repubblica di Tbilisi – piccoli centri urbani con deboli difese dove le truppe russe hanno saccheggiato le caserme dell’esercito georgiano, smantellato le armerie della polizia e sabotato i sistemi di comunicazione.
A fronte di un ridotto investimento militare, Mosca ha così guadagnato un ingente capitale strategico. Le cancellerie occidentali si erano impegnate per persuadere i russi a ritirarsi, confidando nel fatto che senza la minaccia militare la situazione si sarebbe semplificata e la Georgia avrebbe ritrovato la sua integrità territoriale. Però il Cremlino ha risposto con una razionalità politica e strategica che non ha ammorbidito la sua morsa sulla Georgia. Il ritiro militare è avvenuto. Tuttavia si è trattato di una rilocazione dei contingenti basato su due mosse a sorpresa.
La prima è stata la definizione unilaterale da parte di Mosca di zone cuscinetto tra Ossezia meridionale, Abkhazia e Georgia che però sforano a danno della Georgia i confini amministrativi delle due micro-repubbliche. I soldati russi si sono dunque riposizionati lungo confini tracciati arbitrariamente da Mosca continuando a detenere una presenza e un’influenza sul territorio georgiano. D’altronde queste zone cuscinetto non rientravano nei sei punti di Sarkozy – ma neppure l’integrità territoriale della Georgia, che continua a rimanere una dichiarazione d’intenti senza attuazione.
La seconda mossa a sorpresa ha sfruttato i peace-keepers russi. Questa volta il minuscolo, ma comunque simbolico, contingente è stato impiegato per istituire una decina di check points sul confine tra Georgia ed Ossezia e lungo la principale arteria autostradale tra est e ovest della Georgia. Il checkpoint che ha destato più polemiche è stato collocato nel porto di Poti, che è la principale base navale della marina georgiana. Mosca ha ufficialmente riconosciuto che Poti non rientra nell’area in cui i peace-keepers russi sono autorizzati ad operare. Tuttavia questo sconfinamento è stato giustificato come misura di sicurezza di fronte alle manovre che gli Usa stanno effettuando nel vicino porto di Batumi.
Sia Poti che Batumi, peraltro emblema nazionale georgiano perché sede della corte costituzionale, sono due scali marittimi vitali per i traffici della Georgia ed entrambi sono a breve distanza dal confine con l’Abkhazia. Washington ha inviato un cacciatorpediniere carico di aiuto umanitari per le popolazioni sfollate che, in concomitanza con il ritiro russo, rientrano nelle loro terre martoriate dai bombardamenti ed aprono una crisi umanitaria per la Georgia. Almeno altre due navi da guerra americane raggiungeranno Batumi per formare una sorta di ponte navale per fornire soccorsi.
Naturalmente la Russia considera qualsiasi manovra americana come una potenziale minaccia e reagisce con ritorsioni logistiche come, appunto, l’installazione del check point di Poti. La rappresaglia colpisce gravemente la Georgia perché attraverso Poti scorrono centomila barili di petrolio al giorno destinati all’Europa e arrivano le merci per i mercati del Caucaso.
La presenza russa trasmette così un segnale di intimidazione e instabilità che scoraggia i flussi commerciali e condiziona gli equilibri geopolitici dell’intero Caucaso. Il prossimo 15 ottobre le elezioni presidenziali in Azerbaijan acquistano un senso molto più forte per la virata filo-americana del presidente Aliyev, mentre l’Armenia si accinge a riconoscere l’indipendenza del Nagorno-Karabak, storica enclave armena in territorio azero.
Ma le conseguenze del conflitto divampato in Ossezia del Sud Non sono finite. Il Consiglio della Federazione Russa, organo collegiale equivalente al senato, ha infatti approvato ieri a maggioranza assoluta un appello al presidente Medvedev affinché sia riconosciuta l’indipendenza dell’Abkhazia e dell’Ossezia del Sud. Non solo: il documento votato dai senatori russi accusa esplicitamente la Georgia di “genocidio” contro le popolazioni separatiste. Un’analoga risoluzione è sul punto di essere votata anche dalla Duma. Entrambi i documenti non sono vincolanti, ma esprimono chiaramente una forte volontà politica.
A questo punto l’integrità territoriale della Georgia resta l’incognita che può determinare l’evoluzione del conflitto. Pertanto la partita si gioca ora nel Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, alla ricerca di una bozza di risoluzione che contempli il principio dell’integrità territoriale della Georgia con i dati di fatto imposti dalla forza militare russa. Il nucleo restano i sei punti di Sarkozy, che però non citano l’unità della Georgia, sulla quale gli Usa non intendono transigere. Ma neppure Mosca potrebbe votare una risoluzione che marcia in senso opposto alla sua politica.
In questo susseguirsi di pezzi che non combaciano, un fattore di semplificazione può essere costituito da un’intesa sulla futura presenza militare della Russia nelle due repubbliche separatiste di Abkhazia ed Ossezia meridionale. Se i peace-keepers russi fossero sostituiti da una forza multilaterale sotto il mandato delle Nazioni Unite, i separatisti conserverebbero la loro autonomia di fatto e Tbilisi manterrebbe formalmente la sua integrità territoriale. Ma Mosca è entrata in guerra proprio per piegare la Georgia e sbarazzarsi del suo presidente che sogna la Nato nel Caucaso.
Nei piani russi questo bersaglio finale può essere centrato trasformando le due entità separatiste in enclavi ripulite etnicamente da ogni presenza georgiana. Strappare le due regioni dalla sovranità di Tbilisi scatenerebbe un’ondata di profughi e di malcontento che finirebbe col destabilizzare Tbilisi e travolgere Saakashvili. La complessità delle trattative diplomatiche rispecchia il rifiuto della Russia di considerare concluso il conflitto in Georgia.