Puntualmente quando arriva la disgrazia di un terremoto riparte la discussione sulla sicurezza degli edifici e del patrimonio edilizio italiano. La prima discussione in tal senso iniziò un secolo fa, all’indomani del terremoto di Messina e Reggio Calabria. Il Governo Giolitti, incalzato dall’immane sciagura, inaugurò pochi mesi dopo la prevenzione sismica in Italia. Da allora chi avrebbe voluto costruire un edificio in un comune compreso nella lista a rischio tellurico, lo avrebbe dovuto fare rispettando una specifica normativa sulla resistenza degli edifici alle scosse. Di terremoto in terremoto, nel 2001, il territorio nazionale appariva classificato come sismico per oltre il 70 per cento. Ma, ad una così ampia delimitazione delle zone a rischio, non ha corrisposto un adeguato controllo del rispetto dei requisiti di legge: come ricordavano i giornali in questi giorni, di leggi anche molto circostanziate sull’argomento ne esistono ben quattro, l’ultima delle quali approvata lo scorso anno. Eppure solo il 18 per cento degli edifici, rispetto all’intero stock di edificato, risulta sismicamente protetto. Dunque in questo caso non manca la norma, ma manca il controllo, l’ordinaria amministrazione.
Questo è il vero punto dolente sul quale tutta la classe dirigente italiana dovrebbe interrogarsi, per iniziare un percorso nuovo, non più basato sulle reazioni a caldo di grande intensità e l’incuria che cresce man mano che i cuori placano l’inquietudine delle emozioni provocate dai morti, dalle scene strazianti alle quali abbiamo assistito in questi giorni. Quando le pance si torcono per il dolore tutti si mobilitano, tutto paradossalmente è più facile perché anche l’adrenalina aiuta ad affrontare di slancio l’immane sfida lanciata dal ventre della terra. Ma quando il peggio è passato sopraggiunge la capacità vera, la civile osservanza delle norme di prevenzione, il disciplinato rispetto delle elementari norme di manutenzione. A questo punto è inutile continuare a dannarsi sull’incuria della nostra cultura edilizia, una volta la migliore del mondo e oggi degna di un Paese arretrato e affamato di crescita spericolata. E’ utile invece inaugurare, una volta tanto, una reale attribuzione delle responsabilità. Quell’ospedale di appena dieci anni e già collassato sotto le spinte di scosse di non eccezionale intensità; quella Casa dello studente sbriciolata come fosse un castello di sabbia, avranno avuto dei progettisti, dei responsabili dei cantieri, dei collaudatori profumatamente pagati. Eh sì perché i collaudi costano, e anche molto. Ma al costo dovrebbe corrispondere un prezzo in termini proprio di responsabilità. Ma non accade mai. Ecco un’azione da svolgere subito: chi ha sbagliato deve pagare. E all’inosservanza delle norme devono corrispondere sanzioni pesanti, esemplari.
Si è detto che in Giappone e in California un simile terremoto non avrebbe fatto vittime. Probabilmente è vero. Il motivo sta proprio nella rigorosa osservanza delle norme preventive, che da noi restano invece mera testimonianza, eventualmente, di bella prosa legislativa. La prontezza con cui il Governo ha risposto alla tragedia abruzzese è certamente lodevole. La capacità propulsiva del presidente Berlusconi è essenziale, come suggestiva è l’idea di attribuire a cento province italiane la responsabilità di cento cantieri della ricostruzione. Ma crediamo serva anche la lungimiranza per concepire una prassi nuova, da diffondere in tutte le amministrazioni locali, con precise attribuzioni di responsabilità e pesanti penali, quali anche la decadenza dall’incarico Questa crisi, come anche quella economica, deve essere vissuta seguendo alla lettera l’etimologia cinese. Loro la rappresentano, come ricordò un giorno JFK, con due ideogrammi: uno significa pericolo l’altro opportunità. Ecco “sfruttiamo” questa tragedia per inaugurare una stagione amministrativa nuova. Poi si può cominciare a discutere sul da farsi, su quali siano le migliori strategie per affrontare un deficit che certamente non finisce nei bilanci ma che poi presenta il conto in termini di vite umane.
Le new towns possono essere una risposta all’emergenza abitativa, ma contemporaneamente si dovrebbe avere il coraggio di demolire tutti quegli edifici tirati su all’epoca del boom economico degli anni Sessanta o nella stagione delle utopie architettoniche degli anni Settanta. Se insomma si avrà la capacità di riqualificare i suoli piuttosto che consumarne di nuovi, allora la coincidenza tra “piano casa” e schiaffone arrivato dal centro della Terra potrà far prevalere la parte di opportunità contenuta in ogni crisi. Se invece si ragionerà per addizione e non per sottrazione e sostituzione, si imboccherà la strada che porta al pericolo.
Altro e non meno complesso discorso si deve fare per la ricostruzione e tutela dei nostri preziosi centri storici. Per le case antiche il ragionamento da farsi è sempre lo stesso: manutenzione e sapienza edilizia. C’è un precedente emblematico: nel 1997 la Basilica Superiore di Assisi fu straziata dal crollo della prima volta affrescata, mentre la seconda resistette. Ebbene la prima era stata “rinforzata” con travi in cemento armato, la seconda no. Insomma se si seguiranno le regole edilizie antiche – coadiuvate con la dovuta cautela da qualche nuova tecnologia – i nostri centri storici potranno continuare a vivere perpetuando la nostra identità. Ma dobbiamo sapere, come scriveva ieri Antonio Polito, che tutto questo ha un costo, comunque minore di quello che si spende per ricostruire, come dovrà esser fatto a L’Aquila. Sul futuro dell’Abruzzo siamo ottimisti, conosciamo quanto siano “tosti”, come ha detto il Governatore Chiodi, gli abruzzesi. Ma speriamo pure che la “vacanza” primaverile sulla costa farà aprire gli occhi su quanti sbagli si siano fatti nel rovinare luoghi che fino ad appena vent’anni fa avevano ancora un’atmosfera unica.
Il migliore omaggio alla memoria delle vittime di questo terremoto e alla sofferenza dei sopravvissuti sarà restituire l’Abruzzo alla sua incantevole bellezza e alla sua dignità architettonica. Solo così la malinconia e il rimpianto lasceranno il posto all’ottimismo e alla crescita culturale, sociale ed economica.