''Sono finalmente una donna libera. Mi hanno dato l'indulto. Sono felice. Stasera andrò a cena fuori 'come gli adulti'''. Sono le prime parole di Silvia Baraldini, tornata in libertà per effetto dell'indulto, in una telefonata con l'amica di sempre, Vladimir Luxuria.
Attivista comunista, negli anni '60, '70 e '80 militava negli Stati Uniti nel Black Panther Party, movimento eversivo che combatteva per i diritti civili dei neri. Nel 1983 fu condannata a una pena cumulativa di 43 anni di carcere negli Stati Uniti. Le accuse erano di concorso in evasione, associazione sovversiva, due tentate rapine e ingiuria al tribunale. Dopo una dura battaglia del governo italiano nei confronti degli Usa, nel 1999 era stata estradata in Italia.
Era quasi mezzogiorno, il 25 agosto del '99, quando all'aeroporto di Ciampino atterrò il Falcon che la riportava in Italia. Ad attenderla, quella mattina di fine estate, l'anziana madre Dolores e l'allora ministro della Giustizia Oliviero Diliberto, che aveva messo la sua firma sotto l'accordo con gli Usa che consentiva il rientro della detenuta. A patto che avrebbe continuato a scontare la sua pena, fino al 2008, in un carcere italiano. E quella mattina la destinazione della Baraldini era stato il carcere romano di Rebibbia. Dove è rimasta fino a quando, nel settembre 2000, il peggioramento delle sue condizioni di salute (un nuovo tumore, operato) non ne rese necessario il trasferimento al policlinico Gemelli. Poi il 21 aprile del 2001 la decisione del tribunale di sorveglianza di concederle gli arresti domiciliari mise fine ad una vicenda che si trascinava da quasi 20 anni.