ANNIVERSARI SCONTRI DURANTE LA COMMEMORAZIONE DELLA RIVOLTA ANTISOVIETICA. LA TV DI STATO: UNA RAGAZZA E’ CADUTA NELLA CALCA E UN ANZIANO E’ MORTO D’INFARTO
Non c’è festa a Budapest
Rabbia in piazza e 2 morti
La polizia carica e spara proiettili di gomma contro la folla
BUDAPEST. La trincea è fatta di grandi lettere di plastica a formare la parola «Szabadsag», libertà in ungherese. E’ un riparo approssimativo e fragile, quello dietro al quale un centinaio di manifestanti prepara l’attacco ai poliziotti in tuta blu e nera, il battaglione antisommossa rafforzato da centinaia di uomini radunati qui da tutta l’Ungheria: c’è un attimo di sospensione, un silenzio spezzato soltanto dall’arrivo dell’elicottero che sorveglia l’area attorno al Parlamento dove da poco si è conclusa la celebrazione del 50° anniversario della Rivoluzione antisovietica, ospiti 54 fra re, principi, capi di Stato e di governo, ministri (per l’Italia Massimo D’Alema). All’improvviso un lancio ben sincronizzato di pietre colpisce i poliziotti, che rispondono con proiettili di plastica sparati ad altezza d’uomo e con candelotti fumogeni e urticanti. Un giovane si copre la testa insanguinata con le mani, qualcuno scappa, in tanti gridano, gli occhi di tutti lacrimano. Un pensionato sessantenne muore d’infarto, una ragazzina di 16 per trauma cranico dopo una caduta mentre scappa: i primi 2 morti in una rivolta nell’Est del dopo-Muro, confermati soltanto dalla tv di Stato.
Sono le 19 passate da poco, e al termine di una giornata che doveva riunire la città e il Paese nel ricordo della ribellione contro Mosca il centro di Budapest è in stato d’assedio e conta i feriti, almeno 55 i civili in condizioni serie, 4 dei quali in fin di vita, e una decina i poliziotti: «L’aggressione di una minoranza», commenta a sera in tv il premier ex comunista Ferenc Gyurcsany. Dalla grande manifestazione organizzata contro di lui da Fidesz - il principale partito di centro destra che si considera unico erede dei ribelli del ‘56 e ha riunito 100 mila persone al grido di «governo bugiardo, governo comunista, governo a casa» - si staccano frange violente. Piccoli gruppi che si sparpagliano e improvvisano trincee di cassonetti e perfino il furto di un carro armato d’epoca, esposto in piazza Erzsebet ma subito bloccato da un blindato della polizia con cannone ad acqua. La tecnica dei dimostranti è quella consolidata di colpire e spostarsi per tornare a colpire altrove: ma l’obiettivo è «impossessarsi dei luoghi simbolo della città per far capire al mondo che non è cambiato niente in 50 anni», come confida un giovane che dice di chiamarsi Andreij.
Avviene così in piazza Erszebt e in piazza Deak, dove a sera si formano colonne d’auto a tutto clackson e a passo d’uomo e la polizia a cavallo torna a caricare, ma anche nei principali viali di Pest, il quartiere affacciato alla riva destra del Danubio: sull’Andrassi Ut, dove centinaia di lumini lungo il marciapiede ricordano le vittime della repressione sovietica; o sulla Bajcsz Zsilinszky Ut che a sera sembra un campo di battaglia, ingombra com’è di candelotti esplosi e vetri rotti, di transenne divelte e pietre. C’è un contrasto surreale fra la desolata immobilità di piazza Kossuth - sulla quale si apre l’edificio della Dieta, sede di celebrazioni dalle quali è stata esclusa la popolazione nel timore di contestazioni - e la caotica emergenza che un’ora dopo l’altra si allarga a tutto il centro e contagia famiglie con i figli in carrozzina, reduci del ‘56, universitari e rockettari, giovani dalle inquietanti giubbe nere e coppie che avevano programmato un pomeriggio di festa più intimo e quieto.
Molti, per strada, sventolano i vessilli bianchi e rossi della casata degli Arpad simbolo del movimeno fascista «Croci frecciate» o bandiere con al centro un buco, come quelle private delle insegne del partito comunista e distese sui carri armati russi nel ‘56. In tanti si fermano, vogliono spiegare: «Il governo lede i diritti umani, Gyurcsany è un ladro e un bugiardo», dice Alois Vilmos, un 75enne che ha «fatto la rivoluzione contro i comunisti». «La gente dovrebbe fare come allora perché al potere sono rimasti gli stessi», dice Sandor Saniosci arrivato dal villaggio di Kosd, anche lui con la coccarda tricolore marcata ‘56 all’occhiello: «Il primo ministro è diventato l’uomo più ricco del Paese grazie alle privatizzazioni». Le stesse accuse le gridano i manifestanti che dal 17 settembre e fino all’altro ieri hanno abitato la tendopoli eretta in piazza Kossuth, sgomberata con la forza alla vigilia delle celebrazioni. Quel giorno, grazie a una registrazione fatta filtrare ai media, gli ungheresi ascoltarono dalla viva voce del premier che «il governo aveva mentito agli elettori sulla situazione economica per ottenere la rielezione».
Quel giorno la crisi che covava da tempo - in un Paese ancora traumatizzato dal passaggio in 10 anni dal comunismo alla globalizzzazione - si è manifestata in tutte le sue componenti potenzialmente devastanti. Quella giovanile e della destra populista, ostile ideologicamente al comunismo. Quella nazionalista, che accusa di tradimento il premier per aver negato la doppia cittadinanza agli ungheresi che vivono nei Paesi confinanti. Quella - politicamente più temibile - dei ceti medi: furibondi per le scelte neoliberiste dell’«oligarchia di Gyurcsany» che, accusano, hanno impoverito il Paese e imposto un’austerità insostenibile. Tante ferite, troppe forse, per un Paese che non ha ancora elaborato le contraddizioni del ‘56 e di quel trauma continua a portare il segno. Il sostanziale blocco di Budapest, a sera, con i tre ponti principali invasi dalle barricate e una stazione chiusa, ne è l’inquietante simbolo.