Svolta storica nella politica estera USA

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Svolta storica nella politica estera USA

Messaggiodi Aragorn il 17 gen 2008, 17:33

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Lunedì il parlamento di Baghdad ha approvato una legge che annulla quella varata nel giugno del 2003 dal “governatore” americano Paul Bremer e reintegra tutti i membri del partito Baath nel loro posto nell’amministrazione pubblica, militari inclusi. Chi ha commesso reati specifici verrà escluso, ma solo dopo un regolare processo penale. Ovviamente, questa decisione - molto sofferta, avversata per lunghi mesi da molti partiti iracheni, soprattutto sciiti - cambia radicalmente il clima politico interno all’Iraq. Quel disgraziato provvedimento, assolutamente voluto da Ahmed Chalabi, allora pupillo del Dipartimento della Difesa Usa di Donald Rumsfeld, ha infatti avuto tragici effetti. Ha destabilizzato decine di migliaia di famiglie irachene gettandole della disperazione della perdita di reddito dei capi famiglia (i membri del Baath erano circa 1 milione) e soprattutto ha favorito una immensa leva di ex militari che - perso per perso - si sono arruolati nelle organizzazioni armate e terroristiche più disparate, non solo quelle legate agli uomini di Saddam Hussein entrati in clandestinità.

Ma questa legge - più ancora che per il suo impatto sulla situazione irachena - ha un rilievo addirittura storico per quanta riguarda gli Usa e la loro definizione dei “protocolli” del nation building, in cui introduce per la prima volta una ricerca diretta del consenso popolare, quale preoccupazione prioritaria degli Stati Uniti. Essa infatti è stata fortemente voluta da Condoleezza Rice e fa addirittura parte di un pacchetto di 18 provvedimenti che Washington ha chiesto al governo iracheno di al Maliki di approvare, pena la cessazione dello stesso appoggio politico americano. Dunque, una forma pesante di ‘moral suasion’ americana dispiegata… per abrogare una legge americana.

A fianco della straordinaria novità rappresentata dalla nuova strategia militare del generale David Petraeus, questa decisione illustra un intenso, complesso e fertile lavoro di revisione della stessa tradizionale dottrina di nation building che gli Usa applicano nelle aree di crisi in cui intervengono. Petraeus innova perché applica il classico concetto di escalation della pressione militare sul territorio, non già, non più, per garantire sic et simpliciter - come è stato dal 2003 in poi - il controllo del territorio da parte delle truppe Usa, ma finalizzata alla conquista del consenso politico dei micro opinion maker, isolato per isolato, quartiere per quartiere, paese per paese. Una rivoluzione concettuale inedita, tutta politica.

L’abrogazione della debaathificazione agisce con lo stesso fine a livello macro, a livello istituzionale e sociale. Stabilisce che non è più vero - che non è mai stato vero - che la militanza nel partito totalitario di regime costituisce una ‘colpa’ tale da inibire la fiducia del nuovo Stato iracheno. Decreta che questa stessa legge è stato di ostacolo per la costruzione di un nuovo patto nazionale, sia a livello popolare che a livello istituzionale perché ha funzionato da mannaia nei confronti di tutti i gruppi dirigenti sunniti, sia a livello locale che a Baghdad. Attesta, infine, che gli stessi americani che l’hanno imposta - questo è il punto di rilevanza storica - hanno commesso un grave errore. E che l’hanno commesso, va aggiunto, perché influenzati da leader iracheni di riferimento privi di consenso popolare (Chalabi ha fatto flop a tutte le elezioni), o incapaci (è il caso dei forti partiti sciiti, il Dawa e lo Sciri, o i due partiti curdi), di disegnare una ricostruzione del quadro dirigente nazionale che non escluda la componente sunnita (fortemente compromessa nel Baath).

E’ la prima volta nella storia del secondo dopoguerra che un amministrazione Usa riconosce un suo errore su un punto così fondamentale, quale è il nation building, è la prima volta, soprattutto, che una amministrazione Usa si fa carico in prima persona del problema del consenso ad un governo nazionale appoggiato dai suoi militari. La tradizione americana - checché ne dica la ignorante vulgata antimperialista - è infatti sempre stata quella di affidare in toto al governo sponsorizzato il tema del consenso (al massimo fornendo blandi consigli di generiche democratizzazioni, sempre disattesi) e alle truppe con le stelle a strisce il puro compito di difendere quello stesso governo e di presidiare, armi alla mano, il suo territorio nazionale. L’esercito americano è sempre stato ‘separato’, dai governi nazionali (fanno eccezione, naturalmente, i governi militari interalleati di Germania e Austria, e il governatorato di Mac Arthur in Giappone).

Il risultato di questa impostazione è stato semplice: là dove preesistevano forti gruppi dirigenti nazionali di opposizione al regime - o non compromessi col regime - il nation building ha perfettamente funzionato a pieno merito dell’intervento americano (Italia, Germania, Austria, Giappone), là dove, invece, i gruppi dirigenti nazionali erano deboli o non rappresentativi (un esempio per tutti: i vari governi cattolici del Sud Vietnam), lo scollamento tra i governi sponsorizzati dagli americani e la popolazione è stato di gravità tale da vanificare ogni e qualsiasi impegno militare (come è noto, dal punto di vista strettamente militare, le truppe Usa vinsero decisamente in Vietnam, la guerra fu persa perché collassò il fronte interno Usa: non era possibile morire per un governo di Saigon verminoso e odiato dal suo stesso popolo).

Dopo il Vietnam, questa è stata anche la lezione del fallimento e della caduta dello scià Reza Pahalevi (e sarà quella di Musharraf in Pakistan), in cui la debolezza del regime fu determinante nel gettare nelle braccia di Khomeini anche quei settori per nulla rivoluzionari o islamisti, che determinarono la vittoria dell’ayatollah (e che subito furono repressi, terrorizzati e costretti all’esilio nell’ordine di 2 milioni di persone). Questo retaggio storico, ha pesato negativamente su tutta la reggenza irachena di Paul Bremer, a cui gli Usa arrivarono - va ricordato - con una vera e propria guerra interna tra chi - il Dipartimento di Stato - sponsorizzava Iyyad Allawi e considerava Ahmed Chalabi una iattura, e chi - il Dipartimento della Difesa - sponsorizzava Ahmed Chalabi. Alla prova del consenso popolare le liste dei due non raggiunsero mai il 10% dei consensi.

In realtà, a Baghdad, gli americani sono finalmente andati a sbattere la faccia contro la ‘questione islamica’, che hanno sempre evitato di affrontare nel merito. Paul Bremer, quando prese il controllo autocratico del paese non aveva neanche il numero di telefono dell’ayatollah al Sistani, nessuno dentro l’Amministrazione Usa aveva ancora compreso che era lui il perno di tutto il nation building, né, vi era la minima conoscenza dei complessi termini storici che hanno determinato gli attriti tra sciiti e sunniti in Iraq, dalla battaglia di Kerbala del 680 dc, a oggi.

La legge sulla debaathificazione era il sintomo di un totale vuoto politico-culturale americano (non parliamo, per pietà, di quello europeo) e per questo ha avuto effetti così disastrosi. Il suo annullamento costituisce quindi la base di partenza per un complesso lavoro di analisi e di elaborazione dottrinale che l’amministrazione Usa sta intraprendendo - a partire dal tema degli attriti tra sciiti e sunniti - che ha ovviamente un riscontro ben più ampio, a livello regionale, nel contrasto tra i regimi sunniti (Egitto, Giordania, Arabia Saudita, Emirati, Anp) e le mire espansionistiche della rivoluzione sciita iraniana.

Questo è infatti il contesto vero, epocale per il Medio Oriente, in cui si colloca tale dinamica, questo episodio apparentemente marginale, della marcia indietro sulla debaathificazione. Un processo che, prima o poi, obbligherà gli Usa - si spera- a iniziare a rendersi conto anche del rapporto di consenso tra i regimi sunniti che sponsorizza (in primis Egitto e Arabia Saudita) e il loro popoli, e quindi dell’ideologia che li caratterizza. Ma sarà questione di anni.

Comunque, un nuovo totale, vergognoso smacco per un’Europa che continua a baloccarsi con schemi di analisi e di dottrina sterili, antichi, inadeguati, mutuati dal più trito antimperialismo terzomondista (quando non lenin-stalinista, come nel caso di D’Alema). La pragmatica capacità americana di fare i conti con la storia, dentro la storia - frontalmente, giocando il sangue dei propri soldati - surclassa la pigra intelligentsja europea che ancora si balocca con ‘ritiro sì, ritiro no’, o invoca multilateralismo contro unilateralismo (un vergognoso alibi metodologico, ma unica idea guida del D’Alema pensiero).

Gli americani capiscono facendo. Gli europei non capiscono e non fanno. Fuori dalla storia.


«Non tutto quel ch'è oro brilla,
Né gli erranti sono perduti;
Il vecchio ch'è forte non s'aggrinza,

le radici profonde non gelano.
Dalle ceneri rinascerà un fuoco,
L'ombra sprigionerà una scintilla;
Nuova sarà la lama ora rotta,
E re quei ch'è senza corona.»

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