Capello: "I miei scudetti sono nove,con buona pace del signor Rossi"
Dal tecnico dedica al veleno dopo il trionfo
ROBERTO BECCANTINI, INVIATO A MADRID
Adesso che il suo Real «feo y aburrido», brutto e noioso, ha conquistato in volata la Liga numero trenta, la prima dal 2003, Fabio Capello ha diritto alle scuse di una classe giornalistica senza memoria, una consorteria ondivaga e un po’ cialtrona che si è attaccata a tutto, anche all’uomo, pur di demolire l’allenatore. Là dove aveva fallito Arrigo Sacchi, per il quale Florentino Perez aveva coniato una carica che in 105 anni di storia nessuno aveva coperto, «director de futbol», il duro di Pieris ha scolpito l’ennesimo capolavoro. Claro, il Barcellona dell’ex allievo Frank Rijkaard gli ha dato una mano, ma una mano non basta se non sei forte di tuo, se non sai bloccare la lavatrice dentro la quale il destino ti ha ficcato; se, fuor di metafora, non sei Capello. Un uomo solo al comando, e probabilmente, per come ha deciso di vivere il mestiere, il più solo dei comandanti. Tranne quando vince.
Hanno passato la notte a Cibeles, la fontana che il madridismo ha trasformato nel suo parco giochi, a festeggiare una cosa che, a febbraio, nessuno osava immaginare: per pudore o per sfinimento, non importa. Capello era stato scelto da un presidente, Ramon Calderon, eletto al limite del broglio. Circondato e protetto dalla sua tribù - Italo Galbiati e i due Franco: Baldini e Tancredi - Fabio ha tirato su il ponte levatoio. Volete che me ne vada? Licenziatemi. Non mi dimetterò mai. Questione di soldi. Fabio scappa dalle piazze, non dagli stipendi. Mollò Roma dopo aver giurato che mai e poi mai sarebbe andato alla Juve: della quale parlava, più o meno, come ne avrebbe parlato il procuratore Palazzi nella requisitoria di Calciopoli. Dribblò e mortificò il popolo juventino non prima di aver garantito che «ci saremmo divertiti» quando lo scandalo sarebbe arrivato a sentenza. Professionisti tutti d’un prezzo, si chiamano così. Capaci di scampare a un’eliminazione negli ottavi di Champions (Bayern), a un pre-contratto offerto e firmato dal successore designato, Bernd Schuster, ai giochi sporchi di Predrag Mijatovic e al voltafaccia del padrone.
«Capello bis, un ritorno che non paga», si titolava, giulivi, a fine gennaio. E invece ha pagato: e come. Mai, in carriera, aveva vinto lo scudetto in rimonta. Mai. Nemmeno nel 1997, l’anno del suo primo «aliron». Milan, Roma, Real, Juve: subito in testa, e poi chirurgico gestore di vantaggi, risorse, umori. Rileggere la «temporada» di don Fabio aiuta a capire la scorza del domatore. I tifosi lo detestavano. I giornali della capitale erano tutti una presa in giro, cartoni animati e figurine delle sue figuracce. Capello come un pupazzo senza arte né parte, le mascelle che toccavano terra, la bazza che sembrava un bidone. Sino al dito medio che, poco conciliante, dedicò a un pugno di tifosi la sera della vittoria-salvezza contro il Saragozza, all’andata. Censurato, chiese scusa. Quando lasciò partire Ronaldo, bastarono due gol a Siena - due, come Maccarone - perché la critica gli saltasse al collo. Cassano ne imitò i tic e i vezzi, e i servi fecero la ola. In combutta con Calderon mise fuori squadra Beckham, che aveva appena firmato per i Los Angeles Galaxy, e la classifica precipitò. Venne accusato di mobbing da Helguera e contestato, addirittura, da uno dei suoi discepoli più affezionati, Emerson. Nella polveriera del Real, Capello era un candelotto di dinamite, non l’artificiere di cui ci sarebbe stato bisogno. Non c’era sondaggio o referendum che non lo collocasse ai minimi storici.
D’improvviso, è successo qualcosa. Van Nistelrooy si è messo a segnare e di Ronaldo al Milan non ha più parlato nessuno. Nemmeno di Cassano, dopo l’arrivo e il rendimento di Higuain. Beckham è tornato, e per tre mesi ha giocato da dio. «Ho sbagliato», ha confessato Fabio. «Capello è un grande», ha chiosato l’inglese in tutte le lingue. Il Real ha ritrovato un’anima. L’anima del suo precettore. Quanto al gioco, siamo ancora lontano dalla tradizione, ma se pensiamo all’ibrido che era il Real di Luxemburgo e Sacchi, un club fondato sui nomi dei giocatori, nemmeno sui giocatori, la differenza che balza all’occhio è clamorosa.
Avviso ai naviganti: «Per me - ringhia in conferenza, a champagne ancora gocciolante - con questo gli scudetti sono nove. Come Nedved, sento miei anche i due della Juventus. Li avevamo vinti sul campo. Meritatamente. Se poi un giorno hanno messo lì un certo signor Rossi e costui ha deciso in un’altra maniera, cavoli suoi. Già che ci siamo, lasciatemi togliere una spina. Quando in Supercoppa l’Inter ci battè 1-0 a Torino, ricordate?, a noi annullarono un gol regolarissimo (di Trezeguet). Arbitrava proprio De Santis. Strano: nessuno di "loro" disse beo. Ripeto: ho vinto nove campionati, quattro al Milan, uno alla Roma, due alla Juve, due al Real. Capito?