di FRANCESCO BORCONOVO
Un autogrill, un paio di alberghi, un distributore di benzina, qualche casa sparuta che punteggia il verde dei prati intorno. La Salerno-Reggio Calabria e il suo indotto hanno inghiottito quasi tuttala superficie del campo di Ferramonti di Tarsia, quindici minuti di macchina fuori da Cosenza. Usciti dall'autostrada e percorso un tratto di Statale, s'incontra solo un cartello giallo in parte masticato dallaruggine aindicare che bisogna proseguire verso destra per raggiungere l'ex campo di concentramento. O almeno quel che ne resta. Gli ultimi cento metri prima dell'ingresso - l'ossatura di un cancello che potrebbe appartenere a una vecchia casa di campagna - si sono trasformati in una viuzza asfaltata, come ce ne sono centinaia nei paesini intorno. Un edificio basso e lungo dipinto di bianco, una delle baracche dove si trovava la direzione del campo, fa corpo unico con una villetta a due piani, proprio come le stalle di una volta che vengono ristrutturate e rese abitabili.
Nessuna suggestione apparente, quindi, nessuna percezione di geometrico grigiore. Nell'aria, invece del silenzio contrito e pensoso, strabordante di compatimento, che si avverte in luoghi come Mauthausen o Auschwitz, si fanno largo gli schiamazzi dei bambini. In visita c'è una quinta elementare giunta da una cittadina del versante opposto della Calabria, un gruppone di ragazzini zainetto e panino-muniti come ne arrivano afrotte ogni anno: diecimila di media da tutto il centro sud. Non fosse che il sole è un po' offuscato e minaccia di pio -vere, si direbbe una gita all'aria aperta, manca solo un pallone da inseguire.
Il più grande d'Italia
Il fatto è che sul terreno dove i bambini corrono, urlano e ridacchiano una volta sorgeva un lager. Il più grande d'Italia, 160 milametri quadrati di ampiezza, che adesso sono occupati da strade e insediamenti. Il 90% dell'impianto originario non esiste più. Da qualche tempo però, l'associazione Diritti Civili di Franco Corbelli - consigliere provinciale di Cosenza - ha avanzato la proposta di restaurare il campo e di ricostruirlo, per quanto possibile, così com'era, per trasformarlo in un monumento alla memoria alla pari di Auschwitz. Dueannifa un suo ordine del giorno è stato approvato all'unanimità dalla giunta provinciale cosentina e nei giorni scorsi Corbelli è tornato alla carica, proponendo una scadenza per la conclusione dei lavori di recupero: il 25 aprile 2008.
Dell'impianto originale rimangono poche costruzioni, quelle in cui si trovava la direzione, quindi più stabili e in grado di resistere all'urto del tempo. Tre di queste sono circondate da strisce di nastro bicolore e appaiono un po' cadenti. Le altre ospitano il museo e le esposizioni fotografiche. Quando il campo fu ultimato, nel 1940, di edifici ce n'erano 92. Ospitavano ebrei italiani e stranieri catturati dopo l'emanazione delle leggi razziali, ma anche semplici prigionieri, comunisti, anarchici e pure piccoli commercianti e ambulanti cinesi, che vennero anch'essi internati durante la guerra. Nel periodo di pieno funzionamento, il lager era occupato mediamente da oltre 2000 persone, con punte massime di 2700, per un totale di circa 4000 nei tre anni di attività. La gran parte di questi prigionieri ebbe salva la vita. Alcuni morirono di stenti o di malattia, ma non assassinati. Solo chi chiese il trasferimento in altri luoghi e fu destinato ai campi tedeschi andò in contro al tragico destino di numeri sul braccio e camere a gas. Per questo Ferramonti di Tarsia è conosciuto come il lager "umano" di Mussolini: chi ebbe in gestione il campo non trattò i reclusi come fecero le SS nell'Europa del nord e dell'est, in mattatoi come Dachau. I prigionieri non erano costretti a lavorare e ricevevano un sussidio (sicuro, per quanto misero) dallo Stato. Inoltre, non venivano sottoposti a violenze sommarie e ingiustificate e senza dubbio all'interno della struttura non erano presenti elementi che facciano pensare allo svolgimento di esecuzioni di massa. I primi internati giunsero a Ferramonti il 20 giugno del '40, a lavori non ancora ultimati. Il complesso (fatto unico in Italia) venne costruito appositamente per volontà di Mussolini, forse imitando maldestramente la disposizione dei lager tedeschi, minuziosamente descritta nelle istruzioni del Kriminarkommissar Kappler, tradotte dal tedesco proprio in quegli anni. L'idea del capo del Fascismo, almeno inizialmente, era di situare il campo nella zona di Sibari, sempre nella provincia cosentina. A suggerire Ferramonti come locazione fu il costruttore Panini di Roma, conoscente del Duce, la cui ditta era già da tempo impegnata in lavori di bonifica della zona.
L'area circostante, infatti, era paludosa e la maggior parte dei decessi avvenuti nel campo fu dovuta proprio alla malaria, che insieme ala malnutrizione rappresentava il più grande ostacolo alla sopravvivenza. Il sussidio ricevuto dalle famiglie infatti non bastava per soddisfare le esigenze di tutti i membri, in più non c'era acqua calda e la situazione peggiorò negli ultimi mesi di attività della prigione, nel '43, prima che arrivassero gli alleati a salvare i detenuti (Ferramenti fu il primo campo liberato d'Europa) . Tuttavia, gli internati godevano di una situazione che in altri luoghi sarebbe apparsa paradisiaca. Apartire dal '41, poterono organizzarsi al proprio interno, eleggendo un delegato per baracca (il più noto fu Gianni Mann), che faceva da mediatore con i responsabili militari e il direttore Paolo Salvatore, commissario di pubblica sicurezza al quale specialmente si deve il trattamento dignitoso degli abitanti.
Calcio, scacchi e musica
Inoltre, i detenuti potevano giocare a calcio o praticare altre attività in un terreno adibito esclusivamente allo sport. Molti giocavano a scacchi, perché l'uso delle carte era proibito, così come l'utilizzo di apparecchi radiofonici e fotografici e la lettura non autorizzata di giornali stranieri. Ben presto all'interno della struttura fu edificato un asilo (per accogliere i bambini che assieme alle donne avevano cominciato ad arrivare alla fine del 1940), poi una scuola, organizzata prima dal recluso Eric Wittemberg e poi dal commerciante cecoslovacco Hans Beda. C'era un ambulatorio, dove potevano esercitare anche imedici internati. Alcuni di loro si mettevano a disposizione della popolazione di Tarsia. Le cronache riportano alcuni episodi, inparticolare quello diunragazzo afflitto da una malattia alle ginocchia che il medico della città non riusciva a curare e che fu brillantemente guarita da un dottore ebreo.
Molti dei prigionieri erano di elevate condizioni sociali e culturali. C'erano borghesi benestanti, artisti e un manipolo di antifascisti greci fra cui Evangelos Averoff Tossizza, che poi divenne ministro della Repubblica ellenica. I detenuti organizzarono conferenze, improvvisarono mostre d'arte, concorsi letterari e spettacoli teatrali. Redassero perfino un giornalino e trovarono vi modo di mettere in piedi un'attività musicale (e un coro di trenta elementi), di cui si fece carico Lav Mirski, che prima della guerra era stato direttore d'orchestra all'Opera di Osijekin Jugoslavia.
Gli aiuti di PioXII
La possibilità di condune una vita dalla parvenza umana era dovuta in parte alla volontà dei dirigenti, in parte alle direttive di Mussolini, ma soprattutto grazie al contributo della chiesa cattolica e della comunità ebraica. Gli avvenimenti registrati a Ferramonti offrono elementi utili a smontare il pregiudizio nei confronti del Papa dell'epoca, Pio XII. Il quale intervenne direttamente nella vita quotidiana del lager. Donò strumenti musicali, tra cui un harmonium (del regalo si trova conferma nella corrispondenza della Santa Sede) e, il 22 maggio del 1941, inviò in visita il nunzio apostolico Francesco Borgoncini - Duca. Quest'ultimo ascoltò gli appelli dei prigionieri sia ebrei sia cattolici e accontentò alcune richieste, fra cui quella di mettere a disposizione un cappellano: l'11 luglio dello stesso anno arrivò a Ferramonti il frate cappuccino Callisto Lopinot, che parlava quattro lingue. In più, il nunzio portò con se 12 mila lire da utilizzare per le necessità più impellenti (altro denaro arrivò da vari benefattori).
Non solo i cattolici poterono esercitare liberamente la propria religione. Nel campo furono costruite una chiesa ortodossa e due sinagoghe e il rabbino Riccardo Pacifici si recò in visita a Ferramonti per tre volte fra il '42 e il '43 e ne descrisse il comandante, che gli riservò un'«affabile accoglienza» come dotato di«umana comprensìone».In quelle occasioni furono celebrati matrimoni e funzioni e fu fatta ulteriore chiarezza sulle condizioni della popolazione ebraica, al cui sostentamento contribuiva V organizzazione "Israele Kalk".
Di tutto questo oggi rimane una testimonianza che va sfaldandosi. Il 90% del terreno su cui sorgeva il campo è coperta dall'erba selvatica o da strade, case e alberghi. Il capolinea del treno che trasportava ì prigionieri è visibile a fatica. Nonostante tutto, il museo ha un flusso continuo di visitatori, grazie al lavoro della Fondazione Ferramonti dello storico Carlo Capogreco e del Museo Internazionale della memoria Fondazione Ferramonti di Francesco Panebianco. Secondo Franco Corbelli, per restituire al pubblico un documento straordinario - che potrebbe contribuire alla rilettura del rapporto fra il Duce e gli ebrei e della posizione della chiesa cattolica -servirebbero circa 1,5 milioni di euro. In , attesa che qualcosa venga fatto, non resta che stupirsi di fronte all'eccezionalità della storia di Ferramonti, girando tra le poche baracche superstiti. Sopra la testa dei visitatori, intanto, il cielo si è fatto scuro, minaccia di piovere. E i bambini di quinta elementare mandano sms col cellulare, fra un morso al panino e un sorso di coca.