di Aragorn il 22 mag 2006, 12:55
Il compimento, con qualsiasi mezzo, di atti diretti ad alterare lo svolgimento o il risultato di una partita ovvero ad assicurare a chiunque un vantaggio in classifica, costituisce illecito sportivo". Eccolo, l’articolo 6 comma 1 del codice di giustizia sportiva. Ripassarselo può far bene, nel momento in cui il dibattito relativo ai processi sportivi si infiamma e se ne sentono un po’ di tutti i colori. Inclusa quella, del "non vedo l’illecito" (lo ha detto pure l’ex capo dell’Ufficio Indagini Corrado De Biase), che lascia sinceramente stupefatti. La verità è che Moggiopoli rappresenta un caso senza precedenti. Da cui ne discende la pluralità di vedute e la difficoltà nel mettere dei punti fermi. Specie quando si deve passare dal "particolare" (l’evidente coinvolgimento fraudolento di tanti singoli personaggi) al "generale" (il livello di compromissione delle singole società). L’illecito, nella storia del calcio italiano, poggia la sua casistica su storie chiarissime: i giocatori che "truccano" il risultato di un match (calcioscommesse ’80 e relativi assegni bancari circolati in particolare sulla partita Milan-Lazio) o la società che «compra» la partita decisiva (caso Genoa-Venezia dell’anno scorso) con relativo corpo del reato (i 250mila euro passati di mano e sequestrati).
CONDIZIONAMENTO. Moggi, attraverso i designatori Bergamo e Pairetto, esercita un controllo e un condizionamento pressochè totale sulla classe arbitrale. Al punto da non curare solo gli interessi prevalenti della sua Juventus, ma offrendo anche la sua assistenza a quanti (Fiorentina e Lazio), trovandosi in difficoltà, chiedono direttamente o indirettamente il suo aiuto. Che il dettato di Moggi arrivi attraverso Bergamo e Pairetto a destinazione, cioè agli arbitri, è provato dalle intercettazioni in modo esaustivo. Quello che manca è l’ultimo anello della catena: l’arbitro, armato dai designatori, ha effettivamente premuto il grilletto? Se la risposta non è certa, lo spazio di argomentare per la difesa si amplia, visto che oggi, al contrario di una volta quando alla giustizia sportiva per condannare bastava poco, servono "prove" e non solo "ragionevoli sospetti".
L’ARMA. Come qualcuno tiene a sottolineare, ci sarebbe un altro elemento a discarico delle responsabilità che sembrano schiacciare in primis la Juve e in misura minore Fiorentina e Lazio (molto sfumata la posizione del Milan): manca, oltre all’arma del delitto, la "borsa", l'entità della presunta corruzione. Due nodi sui quali la difesa della Juventus si presume possa arroccarsi, mentre è lecito ritenere che Fiorentina e Lazio batteranno più sul tasto dell’essere "vittime designate" (i viola hanno iniziato a farlo) di un sistema così vasto per cui era impossibile ribellarsi. La mancanza dell’arma del delitto e della borsa rendono questo processo del tutto atipico. Ma sarebbe fuorviante pensare che ciò possa bastare a ridurre tutta questa storia a una semplice violazione dell’articolo 1, (lealtà e probità sportiva) a cura di un ristretto numero di birbaccioni guidati da Moggi.
LA BORSA. La "borsa" non c’è (fatti salvi eventuali accertamenti finanziari che curiosamente le Procure non hanno ancora avviato) perchè il vantaggio economico è insito nella carriera stessa degli arbitri: 5165 euro per dirigere una partita di A, 2582 per la B, 1281 per la Coppa Italia, senza contare i vantaggi del diritto d’immagine (37mila, 31mila, 24mila e 12mila euro l’anno a seconda delle fasce di merito) e quelli conseguenti al passaggio a "internazionali" (sono dieci), dato che in Uefa vigono le stesse tariffe. Essere dentro o fuori al giro giusto, per gli arbitri fa la sua bella differenza, insomma. Quanto all’arma del delitto, bisognerebbe andarle a rivedere in tv, quelle maledette partite. Senza fermarsi tuttavia agli episodi eclatanti. Perchè un match, come il De Santis telefonico di Lecce-Parma insegna, può essere pilotato al punto da compiere "un’opera d’arte". Per tutti questi motivi, e soprattutto per la definizione stessa dell’illecito sportivo, le società coinvolte difficilmente potranno uscirne senza danni. "Le società rispondono direttamente dell’operato di chi le rappresenta ai sensi delle norme federali..." dice sempre il codice di giustizia sportiva. Una specifica che non farà piacere a Giraudo e Moggi, ma anche a Lotito e Della Valle, perché la responsabilità diretta è quella che si paga più cara, al contrario di quella oggettiva in cui ricadrebbero il Milan e Meani, il dipendente che aveva tanto a cuore i guardalinee Giusti.
Concludiamo ricordando come il capo della Procura di Torino, dottor Maddalena, nell’archiviare il procedimento post intercettazioni di Moggi (atto primo) sostenne che il pilotare le designazioni sulle amichevoli (come risultava fosse avvenuto) non era configurabile come reato di frode sportiva. Farlo invece sulle designazioni per il campionato, scrisse Maddalena, si configurerebbe come reato. Appunto
Ruggiero Palombo
«Non tutto quel ch'è oro brilla,
Né gli erranti sono perduti;
Il vecchio ch'è forte non s'aggrinza,
le radici profonde non gelano.
Dalle ceneri rinascerà un fuoco,
L'ombra sprigionerà una scintilla;
Nuova sarà la lama ora rotta,
E re quei ch'è senza corona.»